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Centro di Psicoterapia Scaligero

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Archivi categoria: pregiudizi

Lo psicologo scolastico interviene sulle 6 dimensioni della sessualita’.

Pubblicato il Aprile 10, 2019 da michela pinton
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In questo post vi parlerò di un argomento di cui gli psicologi si occupano in ambito scolastico già da alcuni anni: l’educazione all’affettività e sessualità con i suoi pro e i suoi contro.

Nel precedente post vi ho parlato dei possibili interventi che lo psicologo potrebbe svolgere in ambito scolastico. Uno degli argomenti di cui la psicologia scolastica si occupa già da tempo è l’educazione all’affettività e sessualità. Questo argomento purtroppo però viene solitamente trattato in modo limitato e sporadico, non solo per colpa delle scarse risorse finanziarie della scuola, ma a causa di alcuni pregiudizi che ancora persistono negli adulti intorno a questo tema come ad esempio: “ai bambini non serve che si tratti questo argomento a scuola” oppure “la sessualità è un processo naturale e quindi non serve spiegarlo”.

Mi sembra una visione un po’ miope se ricordate alcuni dati di ricerca sul tema “Giovani e sessualità” che vi avevo riportato qualche tempo fa. Giusto per rispolverare la memoria ne ricordo qualcuno:

  1. L’età media in cui i giovani vivono le prime esperienze sessuali si è abbassata;
  2. I giovani dimostrano di avere scarse conoscenze circa la sessualità;
  3. Le informazioni che i giovani hanno sulla sessualità le ricavano principalmente da internet.

Riflettendo su questo ultimo punto bisogna tener presente che i minori hanno facile accesso ai dispositivi elettronici con tutti i loro contenuti, tra cui messaggi pornografici e pornosoft subliminali e non come quelli che sono presenti in molti videogiochi, ma hanno scarse competenze nel loro utilizzo. L’accesso libero e smodato alla rete comporta alcuni rischi tra qui quello di poter interagire con dei pedofili.

Credo possiate capire da voi quanto diventa importante la figura professionale dello psicologo nel trattare questo argomento.Ovviamente questo tipo d’intervento non dovrebbe essere limitato ad una discussione sulla dimensione biologica della sessualità o una semplice descrizione dell’apparato genitale. L’affettività e la sessualità comprendono molteplici dimensioni e tutte concorrono allo sviluppo dell’identità dei ragazzi. Pertanto gli psicologi che si occupano di affettività e sessualità a scuola solitamente toccano tutte le dimensioni:

  1. Biologica;
  2. Relazionale/affettiva (il rapporto con l’altro);
  3. Psicologica (bisogni, desideri, scopi, emozioni, pensieri ……. personali);
  4. Ludica (ricerca del piacere, curiosità al posto di trasgressione);
  5. Valoriale (dare un senso e un significato ad ogni azione e saper valutare cosa è bene e cosa no per sé stessi secondo il proprio sistema di valori);
  6. Culturale (al giorno d’oggi ci si confronta con l’esposizione mediatica e sdoganamento della sfera privata).

Sebbene tutti questi argomenti vengano trattati nei progetti scolastici purtroppo, come vi avevo anticipato, il tempo che lo psicologo ha per farlo è molto limitato. Per questo motivo sarebbe auspicabile, in questo tipo d’interventi ma anche per altri argomenti, seguire delle linee guida:

  1. Fare in modo che i progetti siano a lunga scadenza e liberi dall’ossessione di risultati miracolosi in tempi brevi, in fondo parliamo di temi che i giovani riescono ad elaborare nel corso del tempo;
  2. Cercare di integrare tutte le conoscenze e le esperienze di tutte le parti (psicologi, insegnanti, alunni genitori);
  3. Tener sempre presente la realtà che i giovani stanno vivendo e i loro reali bisogni, dar loro la possibilità di esprimerli senza il dubbio di essere giudicati;
  4. Concentrarsi più sulle persone e le loro esigenze che sul progetto in sé stesso.

Spero che un giorno si possa arrivare a questo risultato e rinnovo la mia convinzione che lo psicologo scolastico dovrebbe essere una figura professionale fissa e stabile all’interno della scuola per seguire questo tipo di progetti e per tanti altri motivi. Voi che ne pensate?

simboli maschio e femmina
Pubblicato in adolescente, adolescenza, affettività, bambini, educazione sessuale, età evolutiva, giovani, infanzia e adolescenza, pregiudizi, psicologia, psicologo, psicologo scolastico, scuola, sessualità | Contrassegnato educazione sessuale, psicologo scolastico, scuola | Lascia una risposta

Pregiudizio 10: Ah….sei uno psicologo!

Pubblicato il Dicembre 1, 2018 da michela pinton
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10 pregiudizi psicologo

Chiudiamo in bellezza con la saga dei pregiudizi sullo psicologo. Spero di strapparvi qualche risata con un paio di aneddoti che mi sono realmente accaduti.

Aneddoto 1: “Ah…sei una psicologa?! …..Allora mi stai analizzando?! (con tono tra l’ironico, l’incuriosito ma anche l’intimorito) ……Che cosa hai capito di me???”  Secondo voi queste domande dove e quando mi vengono poste??? Di solito capita quando sono a cena fuori, ad un aperitivo, ad un concerto o con gli amici in qualche locale di sera. Capita di fare qualche conoscenza nuova, si scambiano i primi convenevoli tra cui “che lavoro fai?” e BAM, arriva la sequenza di domande di cui sopra. Ora la faccio io una domanda: “Ma secondo voi, ad una cena, ad un aperitivo, ad uno spettacolo, ad un concerto, io non ho niente di meglio da fare che stare ad analizzare tutti i presenti??? Chi fa lo psicologo, lo fa 24 ore al giorno, ovunque, comunque e con chiunque??? Se pensate di sì, mi spiegate per quale motivo? Perché non dovrei godermi una serata di relax ed evasione come tutti e stare invece impegnata a scrutare la mente dei presenti?” Vedete il mio non è un hobby, è un lavoro e non è neanche un lavoro facile. La mia giornata lavorativa consiste nel parlare con diverse persone che hanno dei problemi, piccoli o grandi che siano, ed essere capace di sostenerle, guidarle, farmi carico dei loro problemi. E’ un lavoro che certamente mi appassiona, bellissimo e molto interessante perché mi permette di imparare tante cose e di aiutare veramente gli altri ma dopo una giornata così la mia mente ha bisogno di evadere e ricaricarsi. Fa parte dell’autodisciplina dello psicologo sapere quando e quanto spendersi per gli altri e quando staccare. Saper dosare le proprie energie è importante per se stessi ma anche per gli altri, per far bene il proprio lavoro. Ecco perché nel tempo libero smetto i panni della psicologa e sono solo me stessa, ecco perché di solito rispondo “mi spiace ma il mio cervello adesso è spento”. E pensate che alcuni miei colleghi non dicono neanche che lavoro fanno pur di evitare certe domande!

Aneddoto 2: “Ah…sei una psicologa?! Sai stanotte ho fatto un sogno. Mi dici che cosa significa?”. In questi casi di solito mi sento in grande imbarazzo perché non so mai come spiegare che non interpreto i sogni. Quando ho provato a dire che nella psicologia ci sono diversi approcci e che non tutti usano l’interpretazione dei sogni e così neanche io, la faccia di chi mi stava di fronte esprimeva una sorta di delusione mista ad incredulità. A volte ho avuto l’impressione che qualcuno se la prendesse un po’ con me, convinto che non lo volessi ascoltare. Non è così, è che proprio l’interpretazione dei sogni non è una mia competenza. Ci sono miei colleghi che la sanno fare, gli psicoanalisti sono molto ferrati in materia di sogni. Io invece mi occupo di quello che le persone fanno, pensano e sentono da svegli. Si parla appunto di approcci diversi della stessa professione. Ciò non significa che non creda che i sogni siano un aspetto interessante della mente umana, che in qualche modo mi piace approfondire e studiare, solo che nella mia pratica lavorativa di solito non sono contemplati. Mi spiace se ciò delude qualcuno, comunque ricordare questo aneddoto mi ha fatto venire voglia di andarmi a rileggere “L’interpretazioni dei sogni” di Freud!

Tra il serio e il faceto siamo quindi giunti alla fine della saga dei pregiudizi sullo psicologo. Spero che questi miei scritti siano serviti a chiarire meglio gli aspetti principali di questa professione. Ma non è finita qui. La prossima settimana si riparte con un nuovo argomento. Stay tuned!

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Pregiudizio 9: Perchè rivolgersi ad uno psicologo posso parlare con un amico?

Pubblicato il Novembre 28, 2018 da michela pinton
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10 pregiudizi psicologo

Siamo quasi giunti alla fine della saga dei pregiudizi e bisogna ammettere che capita di sentire anche questo. Se fosse vero che un amico può risolvere ogni nostro problema, la professione di psicologo non dovrebbe esistere perché la maggioranza delle persone ha almeno un amico. Evidentemente avere degli amici non è una condizione sufficiente per risolvere i propri problemi. Scopriamo perché.

Secondo voi, le persone che oggi si rivolgono ad uno psicologo non hanno amici che li possano aiutare? In attesa della vostra risposta, vi posso dire che le persone che conosco hanno amici, anche i miei pazienti hanno degli amici. Se la maggioranza delle persone ha degli amici con cui parlare, allora a cosa servono gli psicologi? Immagino che un’obiezione potrebbe essere: “può succedere che una persona non se la senta di confidarsi con un amico e chiedere aiuto per un suo problema”. Se le cose stanno così, significa che ci sono dei problemi che le persone non si sentono di poter confidare agli amici o per i quali ritengono che il parere di un amico non sia sufficiente. Se questo accade forse significa che rivolgersi ad uno psicologo è diverso che rivolgersi a chiunque altro.

Che cosa allora differenzia lo psicologo dall’amico?

Prima di tutto le sue conoscenze rispetto al funzionamento della mente e rispetto alla psicopatologia (disturbi mentali). Ho già scritto più volte sul lungo percorso formativo degli psicologi. Questo tipo di conoscenze specifiche non sono comuni a tutti, ma le possiede solo chi ha studiato la materia.

Secondo punto, non meno importante, lo psicologo non ha alcun legame di tipo affettivo con il paziente a differenza dell’amico. Questa distanza relazionale permette allo psicologo una visione più obiettiva e priva di giudizi sul paziente e sul suo problema e gli dà la possibilità di porsi come guida sicura e autorevole. I veri amici, quelli che parlano di tutto e sono sempre vicini, sono legati da un profondo affetto che li porta a stare sempre dalla stessa parte e quindi a vedere le cose dallo stesso punto di vista. Anche quando hanno opinioni diverse, alla fine stanno dalla stessa parte perché il legame affettivo è più forte di qualsiasi divergenza. Per il bene dell’altro o per paura di rovinare il rapporto ci si schiera sempre dalla stessa parte. Questo comportamento però tende a ridurre le prospettive e diventa più difficile trovare delle soluzioni. Ma in fondo è giusto così, è giusto che l’amico faccia l’amico, che sia colui che ti sta vicino nel bene e nel male, colui che ti sostiene e sta dalla tua parte sempre.

Nella mia vita quotidiana verifico ogni giorno la differenza tra l’essere amica e l’essere una psicologa. Il mio modo di comportarmi è molto diverso in un caso e nell’altro. Quello che faccio nella mia professione ho provato a spiegarlo in alcuni post precedenti. Nella mia vita privata può capitare che mi venga chiesto un consiglio o un parere più professionale, ma anche se ci provo, di solito non funziona mai: in alcuni casi perché le mie emozioni e i miei sentimenti non mi permettono di essere obiettiva e in altri casi perché come amica il mio parere non ha la stessa valenza. Questo spiega perché esiste un codice etico per gli psicologi secondo cui non ci si può occupare professionalmente di parenti e/o persone che si conoscono personalmente. Regola saggia, che ne pensate?

Mi farà piacere se qualcuno vorrà argomentare questo post o porre delle domande e nel frattempo saluto tutti e vi rimando al 10° e ultimo pregiudizio.

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Pregiudizio 7: la psicoterapia dura troppo!

Pubblicato il Novembre 21, 2018 da michela pinton
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10 pregiudizi psicologo

Questo è forse l’unico pregiudizio che viene mosso alla mia categoria professionale che in parte capisco e accetto. Bisogna ammettere che in Italia, per molti anni, si è sentito parlare solo di terapie di lunghissima durata, a volte addirittura decennale o ventennale. Ma è così anche oggi???

E’ assolutamente vero che esistono percorsi psicoterapeutici che si protraggono per molto tempo (di solito fanno riferimento ad un particolare approccio), ma è anche vero che, nonostante il ritardo rispetto ad altri paesi, finalmente anche in Italia sono riconosciuti e stanno prendendo sempre più piede anche altri modelli, di ben altra durata temporale. Probabilmente ciò accade anche in virtù del cambiamento dei tempi e delle diverse necessità da parte della società. Non starò ora a farvi l’elenco di tutti gli approcci psicoterapeutici e delle loro tempistiche perché, come al solito, preferisco parlare solo di ciò che conosco direttamente e applico nel mio lavoro.

Siccome mi rifaccio al modello teorico della psicoterapia cognitivo comportamentale, posso affermare che secondo questo approccio un percorso terapeutico può durare tra i 4 e i 12 mesi a seconda del caso. Si tratta quindi di un percorso a breve termine e ciò è possibile perché terapeuta e paziente collaborano per la risoluzione di un problema presentato qui ed ora. I colloqui sono solitamente a cadenza settimanale e più che la durata della terapia, aspetti importanti sono la costanza e la continuità. Ovviamente non tutti i casi sono uguali e quando il livello di gravità è alto il tempo di cura può prolungarsi oltre l’anno. In questi casi di solito si integrano anche altre forme di trattamento e la farmacoterapia, se necessari.

Con queste poche e semplici informazioni spero che il punto di vista sulla durata della psicoterapia posso cambiare. Prima di salutarvi però ci terrei a sottolineare una cosa: tempi brevi di psicoterapia sono possibili ma un’unica seduta NO! Lo dico perché capitano pazienti che chiedono un unico colloquio nella speranza di avere una soluzione immediata ai loro problemi, ma ciò non è possibile. Noi psicologi e psicoterapeuti non siamo maghi, non leggiamo la mente, non abbiamo bacchette magiche o sfere di cristallo per risolvere in un colpo solo i problemi della gente. Se avessimo in tasca la soluzione di ogni problema sarebbe una fortuna per tutti e il mondo sarebbe diverso, ma questi sono solo sogni ed illusioni. Quello che possiamo realisticamente fare è mettere a disposizione le nostre conoscenze per aiutare le persone a vedere i problemi da un altro punto divista e trovare da sé delle soluzioni oltre che migliorare il benessere e l’equilibrio interiore. Il massimo che possiamo fare in una sola seduta è inquadrare molto bene il problema che ci è stato esposto dal paziente e descriverlo in maniera puntuale in modo che possa avere una visione più chiara di sé e della sua situazione da cui poter partire. Il percorso terapeutico se necessario viene dopo e richiede per forza più tempo. Le “terapie fast food” non esistono, tenetelo a mente!

Pubblicato in durata della psicoterapia, pregiudizi, psicologia, psicologo, psicoterapeuta, psicoterapia, psicoterapia cognitiva | Contrassegnato durata della psicoterapia, pregiudizi, psicoterapia, psicoterapia cognitivo comportamentale | Lascia una risposta

Pregiudizio 5: Nessuno può capire il mio dolore!

Pubblicato il Novembre 7, 2018 da michela pinton
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10 pregiudizi psicologo

Per la rassegna “sfatiamo vecchi pregiudizi” siamo arrivati ad uno che mi preme davvero molto: “nessuno può capire il mio dolore!”. Ci tengo molto a discutere questa credenza perché non farlo significherebbe dire a tante persone che soffrono o che hanno un problema che non si può far nulla per loro, che non è possibile aiutarle e questo oltre che falso sarebbe dannoso.

Sarebbe utile sapere da voi pubblico quali sono i motivi che portano ad una simile credenza. Forse non si è trovato qualcuno veramente capace di ascoltare o aiutare o forse si crede di avere un problema troppo grande o irrisolvibile. Io vi posso raccontare un episodio che mi è capitato durante una serata pubblica in cui parlavo di ansia e panico. Una persona tra il pubblico mi ha informato di essere affetto da attacchi di panico da molto tempo e mi ha chiesto se io avessi mai sofferto di attacchi di panico. Prima di rispondere ho chiesto come mail volesse avere questa informazione da me e la sua risposta è stata: “Perché se lei non ha sofferto di attacchi di panico, non può capire davvero come mi sento e non può sapere come aiutarmi!”

E’ stata sicuramente un’affermazione forte ed ho ritenuto fondamentale andare a fondo della questione. In prima battuta ho replicato così: “Quindi secondo il suo ragionamento io dovrei aver sofferto di tutti i disturbi mentali conosciuti per poter comprendere i miei pazienti ed esercitare bene la mia professione?”. Che ciò sta a dire che solo chi ha avuto esperienza diretta di un certo problema sa come risolverlo. Poi ho aggiunto: “Se questo è il suo pensiero allora dovrebbe chiedere ad un medico se ha sofferto di tutte le malattie presenti al mondo, dall’influenza al tumore, perché solo così saprebbe come curare le persone”. Ma è possibile una cosa del genere? Facciamo ai professionisti (non psicologi) a cui ci rivolgiamo questo tipo di domande prima di affidarci a loro? Ovviamente no! Di solito quando si decide di rivolgersi ad un professionista si cercano informazioni sulla sua formazione, sulla sua esperienza lavorativa in un certo campo e sul parere dei suoi assistiti.

Perché invece per la categoria psicologi questo non basta? Perché le persone si aspettano qualcosa di più? Credo che la questione stia tutta nella fiducia. Probabilmente ci sono ancora persone che hanno poca fiducia nella professione dello psicologo per timore o per scarsa informazione. In uno dei primi articoli ho spiegato quanto ancora ci sia da fare da parte della categoria per farsi conoscere e apprezzare come una reale possibilità di aiuto o di miglioramento delle condizioni di vita. Però credo serva anche un piccolo atto di fiducia da parte del pubblico, un provare a mettere in discussione le proprie idee e mettersi in gioco, esattamente come si farebbe se ci si dovesse rivolgere ad un nuovo dentista o idraulico o avvocato. In questi casi di solito ti informi se è bravo, da quanto lavora, quanto chiede, se i tuoi amici si sono trovati bene con lui e poi lo chiami e fissi un appuntamento. E se poi non si rivelasse all’altezza delle aspettative ne chiameresti un altro. Perché non fare la stessa cosa anche quando si deve scegliere uno psicologo? Di solito le persone che mi hanno contattato hanno fatto proprio così. Per concludere il discorso sulla fiducia vi racconto come si è conclusa la discussione con la persona di cui sopra. Alla fine ho risposto alla sua domanda e ho raccontato a tutto il pubblico in sala che effettivamente per un certo periodo della mia vita ho sofferto di attacchi di panico e che quindi potevo esattamente comprendere come si sentiva. D’altronde noi psicologi siamo esseri umani e pertanto non siamo esenti da momenti di difficoltà. Quando è successo mi sono rivolta anch’io ad un collega per farmi aiutare. Ho spiegato quindi al mio interlocutore che, sebbene io possa comprendere molto bene come si sentono le persone ansiose, questo fatto non mi rende necessariamente migliore di tanti altri miei colleghi che l’ansia non l’hanno mai avuta, perché le cose che contano nel nostro lavoro sono la preparazione, l’esperienza, l’empatia, la capacità di ascolto e tante tante altre cose che adesso non mi dilungo ad elencare. (Siccome l’empatia credo sia una capacità fondamentale per gli psicologi, sabato scriverò un approfondimento su questo tema.)

Ora vi saluto con un paio di domande: “Secondo voi il mio interlocutore si è sentito rassicurato dal fatto che io avessi sofferto di attacchi di panico come lui e quindi potessi capirlo? Secondo voi ha preso poi contatti con me per farsi aiutare?” Vediamo chi ha voglia di rispondere a questi miei quesiti. Nel frattempo vi auguro buona serata e ci sentiamo presto su questa “rete”.

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